È un percorso interregionale che parte dall’Area Naturale Protetta Selva di Meana. Progettato e, in parte curato, dalla nostra cooperativa, fa parte delle azioni inerenti la Carta Europea del Turismo Sostenibile messe in atto dalla Riserva Naturale Monte Rufeno. All’inizio si snoda lungo tratti boscati in cui spesso alle cerrete si alternano i rimboschimenti a pineta di fine anni ’50. Si passa poi attraverso il borgo di San Pietro Aquaeortus, antico monastero benedettino risalente all’anno 1000, oggi ristrutturato. Poco dopo il borgo per chi vuole è possibile aggiungere all’anello una piccola variante di neanche 2 Km per raggiungere Poggio Spino che con i suoi 819 m s.l.m. è il punto più alto del territorio di Allerona da cui si può godere di un ampio panorama.
Continuando si raggiungono i ruderi ancora ben visibili di un vecchio mulino sul fosso Grossano, le cui acque limpide ospitano spesso anfibi e altra fauna locale. Da qui proseguendo in salita si arriva al cosiddetto “punto triplo”, punto di confine tra 3 regioni: Umbria, Lazio e Toscana.
La seconda metà del sentiero diventa quindi laziale e si inserisce lungo la sentieristica della Riserva Naturale Monte Rufeno, sovrapponendosi, in parte, al “Sentiero dei Briganti”.
L’ultimo tratto infine attraversa i boschi del Parco di Villalba, costeggiando anche l’area pic nic attrezzata e ritornando al punto di partenza.
- Durata Escursione: 3 h (soste escluse, 3h e 30 con variante Poggio Spino)
- Tipologia di percorso: anello
- Lunghezza del percorso: 10 Km (12 Km con variante Poggio Spino)
- Dislivello in salita: 350 m circa
- Livello di Difficoltà: E (escursionistico)
- Interesse: naturalistico e storico
APPROFONDIMENTI
I rimboschimenti
Accanto ai boschi di latifoglie si incontrano numerose pinete. Sono frutto di rimboschimenti operati a cavallo degli anni sessanta sui campi fino ad allora coltivati dai contadini che abitavano i poderi proprietà di pochi latifondisti.
A partire dagli anni cinquanta un impressionante esodo interessò le campagne e le zone marginali e poco produttive come questa si spopolarono completamente in una decina di anni.
Molti dei poderi furono allora acquistati dall’Azienda di Stato per le Foreste Demaniali con lo scopo di preservare i terreni dal dissesto idrogeologico cui sarebbero andati incontro se lasciati all’incuria.
La scelta di operare i rimboschimenti con le conifere anziché con specie già presenti naturalmente è stata, in seguito, molto criticata ed in effetti oggi i rimboschimenti si fanno con querce ed altre latifoglie.
Le conifere vennero scelte , con tutta probabilità per due motivi “politici”: il loro ciclo vitale è più breve e di conseguenza la crescita è più rapida, l’effetto dei rimboschimenti sarebbe stato visibile dopo pochi anni; le pinete avevano bisogno di continui interventi di ripulitura, spalcatura, diradamento e alla gestione dei boschi demaniali si attribuiva in quegli anni anche un ruolo di ammortizzatore sociale: dovevano assicurare lavoro ai disoccupati.
In tutti i modi l’effetto di preservazione del suolo le pinete sembrano averlo svolto con efficacia, il loro destino è però segnato, se non in rarissimi casi, non si ricambiano naturalmente e la comunità di specie del bosco di caducifoglie le sta già colonizzando.
Il bosco di latifoglie

Si tratta di querceti a prevalenza di cerro (Quercus cerris) che presentano in base alle zone sia aspetti mesofili, quindi caratteristici di condizioni climatiche fresche e umide, che termofili, cioè adattati a vivere in ambienti più caldi. Le cerrete hanno diversi gradi di mescolanza: si va dalle cerrete pure al querceto misto con aceri, carpini, sorbi e frassini.
Nelle esposizioni a Nord più fresche e presso gli impluvi è presente la rovere (Quercus petraea) con carpini, aceri e rari esemplari di agrifoglio (Ilex aquifolium).
I versanti più caldi ed a quote inferiori vedono il progressivo aumento nelle cerrete di roverella (Quercus pubescens) e leccio (Quercus ilex) accompagnate dal sorbo domestico (Sorbus domestica), dal ciavardello (Sorbus torminalis), dal corniolo (Cornus mas) e dall’acero minore (Acer monspessulanum). I querceti più degradati si sono trasformati in ambienti di macchia mediterranea a prevalenza di leccio con corbezzolo (Arbutus unedo), fillirea (Phillyrea latifolia) e viburno (Viburnum tinus).
Da non sottovalutare la parte arbustiva con l’abbondante presenza del ginepro (Juniperus communis), del biancospino (Crataegus monogyna), del prugnolo (Prunus spinosa), dell’erica (Erica scoparia) e della ginestra dei carbonai (Cytisus scoparius). Tra i boschi ci sono piccole e sporadiche radure ma che in primavera vedono comparire improvvisamente tante specie di orchidee selvatiche (più di 30) oltre ad una grande varietà di piante erbacee spontanee.
Il mulino sul fosso Grossano

Decine di poderi abitati da contadini, sparsi tra queste impervie colline, appartenenti a tre diversi latifondi, necessitavano di un servizio così essenziale per l’economia di sussistenza tipica delle campagne. Alcune testimonianze di vecchi contadini che hanno vissuto nella zona dicono di non ricordare questo molino ancora in funzione, ma affermano di aver conosciuto l’ultimo mugnaio, tale Olindo, che vi ha abitato e lavorato, che si era nel frattempo trasferito in un altro molino più a valle sullo stesso fosso. Si può quindi ragionevolmente ipotizzare che il molino sia stato in funzione fino agli anni ’20 del secolo scorso. La movimentazione delle macine per la lavorazione dei cereali rappresenta la prima forma di utilizzo dell’energia idraulica, le prime testimonianze sull’esistenza del mulino ad acqua nel bacino del Mediterraneo, risalgono al I secolo a.C. nel trattato De Architettura di Vitruvio (25 a.C.).
Il funzionamento del mulino era strettamente legato alla realizzazione di una serie di opere atte a raccogliere e regolare le acque. Grazie ad uno sbarramento (la travata), realizzato con pietrame o tronchi d’albero e spesso regolato da chiuse per aumentare, diminuire o fermare il flusso dell’acqua che era deviata in un canale detto gora che giungeva fino al molino per alimentare la ruota. Nei casi, come il nostro dove la portata del fosso era limitata, veniva realizzato accanto all’edificio, in posizione sopraelevata rispetto alla ruota, un serbatoio detto bottaccia, che costituiva una riserva d’acqua.
La struttura della ruota adottata in situazioni di questo tipo era quasi sempre quella con pale orizzontali a cucchiaio. Il complesso rapporto uomo-macchina richiedeva al mugnaio di intervenire continuamente: per mettere in funzione la macchina immettendo, attraverso la paratoia, l’acqua, che andava così a colpire le pale per regolare la distanza tra le macine, per mezzo della temperatoia, in funzione del cereale da macinare e della qualità richiesta al prodotto per alimentare la macchina introducendo il cereale nella tramoggia per controllare il prodotto durante il processo di frantumazione per eliminare le impurità che potevano alterare la qualità della farina per provvedere alla manutenzione dell’impianto assicurando l’efficienza delle macine con lavori di rabbigliatura (rifacimento dei solchi radiali presenti sulla superficie interna delle macine) ed eseguendo interventi di falegnameria per riparazioni varie.
La mezzadria

Le famiglie che vivevano nei poderi erano legate dal contratto di mezzadria ai proprietari e, di solito, organizzate attorno a fattorie che in questo caso erano ubicate nel borgo di San Pietro Aquaeortus e nel castello di Trevinano. Anche gli attuali confini regionali ricalcano quelli tra i vecchi latifondi. La mezzadria è stato il sistema contrattuale che per secoli ha regolato la gran parte dei rapporti tra proprietari e contadini in questo territorio come in una grossa fetta dell’Italia centrale.
Di origini medioevali, l’istituto della mezzadria si perfezionò nel settecento resistendo con pochi cambiamenti fino a non molti anni fa. Il contratto era stipulato dal proprietario (comunemente chiamato padrone) con il capofamiglia (capoccia). Il proprietario metteva a disposizione la casa e il fondo (podere), il capofamiglia il lavoro, suo e dei famigliari.
Tutti coloro che risiedevano nel podere dovevano prestarvi lavoro in esclusiva. L’indirizzo per la conduzione spettava al proprietario, le spese e i ricavi venivano divisi a metà, i contadini dovevano anche farsi carico di trasportare la parte di prodotto spettante al padrone nei locali della fattoria.
Ogni podere era organizzato per essere il più possibile autosufficiente, venivano allevate vacche, alcune delle quali avevano la fondamentale funzione di bestiame da lavoro, pecore che davano anche latte per il formaggio, maiali che venivano pascolati nei campi e nei boschi.
I mezzadri potevano tenere animali da cortile, ma dovevano garantire alcuni capi al proprietario (obblighi o regalie). Tutti questi animali fornivano concime per i campi dove ai pascoli e alle foraggiere si alternavano cereali, ma anche canapa per ricavare tessuto.
In ogni podere c’erano viti e ulivi, spesso alternati nei filari che erano, in ogni caso, larghi per permettere la coltivazione del terreno. La meccanizzazione, che richiedeva meno forza lavoro ma maggiori investimenti, le nuove opportunità degli anni del boom economico, il mancato arrivo della riforma agraria, indussero molti contadini a lasciare i poderi ben prima della legge che nel 1982 trasformò gli ultimi contratti di mezzadria in affitto.
La salute delle foreste

Queste aree sono rappresentative di tutte le principali comunità forestali italiane (faggete, peccete, cerrete, leccete, foreste planiziali, ecc.) e questa della riserva nello specifico è un bosco ceduo invecchiato a Quercus cerris. Il progetto, coordinato a livello internazionale dalla Germania, vede la partecipazione di 26 Paesi Membri dell’UE e di 38 Partner.
In Italia, e quindi anche in questa area di studio, sono coinvolti gli esperti del Corpo Forestale dello Stato (servizio CONECOFOR), del Consiglio per la Ricerca e la Sperimentazione in Agricoltura (CRA) e del Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR). Vengono effettuate importanti ricerche a tempo indeterminato per capire come stanno le nostre foreste.
A tal fine vengono rilevati i cambiamenti della vegetazione e del suolo, la presenza di parassiti fungini e insetti e la loro correlazione con lo sviluppo delle piante, il contenuto chimico delle foglie e dei suoli, le variazioni dell’accrescimento degli alberi, le deposizioni atmosferiche, clima e microclima, impatto delle concentrazioni di ozono e biodiversità. Insomma un vero e proprio check-up per comprendere le interazioni tra inquinamento atmosferico, cambiamenti climatici ed ecosistemi forestali ed utilizzarlo quindi come sistema di primo allarme dei danni del nostro prezioso patrimonio forestale.
La Cassia, la Francigena e la Perugina

Nella viabilità attuale si chiama Cassia la strada che collega il Lazio a Firenze passando per Bolsena, Acquapendente e Siena, ma la strada consolare romana risalente al II secolo a.C. aveva un tracciato diverso: da Bolsena passava per Orvieto, attraversava il Paglia risalendo verso l’attuale Ficulle e proseguiva in direzione di Chiusi e Arezzo allora già importanti centri. Nel II secolo d.C., forse per via del crollo del ponte sul Paglia, venne realizzata una prima variante, la Via Traiana Nova, che passava sull’altopiano dell’Alfina e nell’attuale territorio del comune di Allerona.
Fu nel periodo successivo alla caduta dell’Impero Romano che il tracciato si spostò ancora più ad ovest e, con il dominio dei Franchi, la strada venne prolungata oltre le alpi prendendo il nome di Via Francigena. Più che una vera e propria strada, in molti tratti si trattava di una direttrice percorsa anche dalle migliaia di pellegrini che si recavano a Roma. Sigerico, l’arcivescovo di Canterbury, nel suo pellegrinaggio alle soglie dell’anno 1000 tenne un dettagliato diario con l’elenco delle località attraversate, lasciando una preziosa testimonianza che ha permesso di ricostruire l’andamento dell’antico tracciato.
La costruzione dell’Autostrada del Sole, dopo molti secoli, ha di nuovo spostato nella Val di Chiana il principale asse stradale dell’Italia centrale. Numerose strade collegano le due direttrici, molte sono ancora attive per il traffico veicolare, la “Strada Perugina” invece è in parte inglobata nella Riserva Naturale Monte Rufeno dove il suo tracciato è ripercorso dal Sentiero dei Briganti che collega il Parco di Villalba alla Maremma.
Le carbonaia

Giungevano in queste zone per la cosiddetta “stagione silvana” che iniziava con i primi tagli in Settembre e terminava il 29 Giugno per San Pietro e Paolo. Arrivavano quando i tagliatori avevano già accatastato sufficiente legna da carbonizzare. Ancor prima di iniziare le carbonaie costruivano le capanne, dove avrebbero vissuto con le proprie famiglie, al centro del bosco da cuocere. Usavano grandi pali per la struttura portante e per la tamponatura pali, zolle e ginestre che intrecciate e sovrapposte evitavano l’entrata del vento e dell’acqua.
Le aree circolari dove venivano realizzate le carbonaie erano dette piazze. La grandezza delle piazze era espressa in piedi e normalmente una carbonaia media aveva un raggio di 10 piedi. La distanza tra l’una e l’altra era di circa 100 m e dovevano essere assolutamente in piano. All’interno il fondo veniva riempito con foglie e terra per almeno 20 cm. Al centro c’era una torre di legno detta castellina, a forma quadrata o triangolare, il cui interno poi diventava il camino detto buca.
Poi attorno alla castellina si cominciava ad appoggiare la legna in modo da ottenere una carbonaia più tonda possibile con forma simile ad una cupola. Gli spazi che rimanevano tra un legno e l’altro erano riempiti con legna più fina e poi si ricopriva tutto con zolle di terra e foglie per soffocare l’afflusso di ossigeno durante la combustione. Il procedimento di produzione del carbone infatti sfrutta una combustione imperfetta del legno, che avviene in condizioni di scarsa ossigenazione.
Alla base della carbonaia poi si facevano dei fori grandi e orizzontali per regolare uno scambio d’aria tra l’interno e l’esterno. Le carbonaie venivano lasciate bruciare lentamente per alcuni giorni, in media da 4 a 7 in base al diametro della legna. In base al colore del fumo che fuoriusciva dai fori laterali, il carbonaio poteva vedere l’andamento della combustione: solo quando il fumo era turchino e trasparente il carbone era pronto. A cottura ultimata si iniziava la fase della scarbonizzazione che richiedeva 1-2 giorni di lavoro.
Per prima cosa si doveva raffreddare il carbone con numerose palate di terra. Si procedeva quindi all’estrazione spegnendo con l’acqua eventuali braci rimaste accese. Infine il carbone, quando era ben raffreddato, veniva insaccato e trasportato altrove dai mulattieri per essere venduto. Di questo carbone si faceva uso sia domestico (cucine, ferri da stiro, stufe) che industriale. Questo tipo di attività è durata fin circa gli anni ‘50, quando l’uso del gas metano ha soppiantato quello del carbone negli usi domestici e non solo.
Le case coloniche

La casa colonica era il centro della vita del podere: al piano superiore c’era la grande cucina, comunemente chiamata casa, con il focolare che veniva acceso anche in estate dato che non c’era altro sistema che la brace per cucinare, e la tavola dove la famiglia si riuniva per mangiare. In inverno la casa era l’unico locale riscaldato grazie al focolare, ma anche grazie al fiato e al calore emanato dalle bestie vaccine la cui stalla si trovava al piano terra proprio sotto la casa.
Al piano terra c’erano poi la pagliaola, accanto alla stalla dove si appoggiava il foraggio, il cellaio che fungeva da dispensa e da magazzino, il tinaio dove si pigiava e si faceva fermentare l’uva e il forno per il pane. Al piano superiore le stanze da letto.
Nei punti più salubri erano presenti il granaio e la caciaia dove si conservava il formaggio. Vicino al casale c’era il pollaio e, un po’ più distanti, la stalla de’le pecore e gli arelli dei maiali. Interrata era invece la cantina. Intorno al casale infine si trovavano l’aia dove scorazzavano i polli e la concimaia dove si ammassava il letame in attesa di finire come fertilizzante nei campi.
Naturalmente nessuna delle case coloniche che incontriamo aveva all’epoca l’acqua corrente e, tanto meno, l’elettricità. Oggi, anche allontanandoci verso valle dove le campagne sono ancora coltivate, pochi casolari sono ancora abitati da contadini. Molti sono diventati agriturismo o residenze di campagna. Tutti i locali hanno un uso abitativo. Dove c’erano i polli che scorazzavano nell’aia ora ci sono, di solito, il pratino all’inglese e la piscina.
Le sorgenti

Le sorgenti si trovano, generalmente, in corrispondenza dei contatti tra formazioni rocciose molto permeabili (porose, fratturate, etc…), contenenti l’acquifero, e formazioni rocciose a bassissima permeabilità (rocce argillose, per esempio). Quando l’acqua incontra una superficie impermeabile, scorre lungo la stessa fino a, eventualmente, venire a giorno. Nell’area del Parco di Villalaba e della Riserva Naturale Monte Rufeno le sorgenti si trovano, spesso, attorno allo stesso colle, a quote analoghe.
Questo sembrerebbe indicare che sono localizzate proprio in corrispondenza di un contatto tra rocce permeabili e rocce impermeabili. Effettivamente, in quelle zone si trovano argille sottostanti a conglomerati, sicuramente permeabili, e altre rocce più coerenti (arenarie e calcari) anch’esse sicuramente permeabili perché pervase da fratture. Nel costruire i casolari dei poderi si teneva in conto la vicinanza di una sorgente, guardando il panorama si nota come, spesso, si trovino alla stessa altitudine; in altri casi, invece, tre o più casolari sono unibili da una linea retta immaginaria, probabile indizio di strati differenti di roccia inclinati. Lungo l’anello delle Tre Regioni la presenza di acqua si fa evidente incontrando una serie di fontane come ad esempio la Fonte Acquaviva.
Costruita a lato della strada che portava all’antico borgo di San Pietro Aquaeortus, ancora prima abbazia cistercense, la fonte utilizza una vecchia sorgente che sgorgava dal versante sovrastante ricco di acque. Entrambi i toponimi infatti parlano di acqua, abbondante e pura nel caso del fontanile, miracolosa quella dell’ex abbazia che, secondo la credenza, ricorda un prodigio operato da San Pietro che qui si sarebbe fermato in viaggio verso Roma. Dovendo battezzare e non avendo acqua la chiese in dono a Dio e subito zampillò la sorgente da cui il nome “aquae ortus” (sorgente d’acqua).
La sorgente di San Pietro Aquaeortus non è più visibile in quanto inglobata nei lavori di captazione di un acquedotto, stessa sorte toccata a quella che alimentava il mulino sul fosso Grossano. Più avanti si incontrano altre tre sorgenti in prossimità dei poderi Palombaro, Poder Vecchio e Monaldesca, e da ultima quella di Villalba appena sotto La Baita.
San Pietro Acquaeortus

La presenza dell’abbazia di San Pietro Acquaeortus viene citata intorno all’anno 1000 (L. Fumi), epoca in cui la sua vicenda si lega a quella della famiglia dei Farolfingi che furono Conti di Chiusi e Conti di Orvieto nei secoli XI e XII. Secondo lo studioso Spicciani, l’abbazia si trovava a Sud dei terreni ricompresi nella donazione fatta da conte Winildo nel 1038 al monastero di San Salvatore del Monte Amiata, a cavallo del confine tra la contea di Chiusi e quella di Orvieto, attribuendogli una collocazione geografica precisa. Nel 1200 i monaci di San Pietro appartenevano all’ordine dei Guglielmiti, presenti anche nel vicino eremo di Santa Maria di Marzapalo nella foresta del Monte Rufeno, e in quelli di Loreto, poco lontano dal castello di Meana, e di Camporsevoli nel contiguo territorio toscano.
Le fonti storiche concordano nel riferire che nel XIII secolo i monaci di San Pietro appartenessero all’ordine cistercense fondato nel secolo XI con lo spirito di ritornare a condurre una vita monastica secondo l’originaria fisionomia della regola benedettina che all’indomani del concilio di Aquisgrana (817) aveva perduto progressivamente i tratti distintivi dell’austerità e del lavoro manuale. L’ordine ebbe origine dall’abbazia di Cîteaux (in latino Cistercium), in Borgogna, fondata da Roberto di Molesmes nel 1098 e si diffuse rapidamente anche in Italia dove sono tuttora note le abbazie di Fossanova, Casamari, Tre Fontane, Chiaravalle. Scarse sono le notizie sul monastero di San Pietro e sui suoi monaci nei secoli XIV e XV. Tra la fine del ‘400 e i primi decenni del ‘500 la sua storia si unisce a quella della chiesa orvietana di San Giovanni Evangelista degli Agostiniani di Bologna.
Nel 1469 il monastero viene ridotto a commenda secolare a favore del nobile Enrico Monaldeschi che ne fece rinuncia a favore dei Canonici Regolari Lateranensi e l’atto fu approvato da Leone X con una bolla dell’8 gennaio 1517. E’ questo il periodo più complesso e travagliato della storia della chiesa caratterizzato dalla riforma protestante e dalla controriforma cattolica che ebbe il suo cardine nel concilio di Trento (1545-1563) in cui vennero gettate le basi dottrinali e teologiche ed i precetti religiosi che avrebbero rinnovato la gerarchia ed il corpo della Chiesa Cattolica. Nel 1653 la guida della chiesa del borgo passa dai Canonici Regolari al clero secolare.
Nel 1676 i Canonici vendettero la proprietà di San Pietro Acquaeortus al cardinale Bonelli dal quale passò alla famiglia Sinibaldi, poi a quella del marchese Girolamo Antinori a eccezione di un “piccolo terreno lavorativo con casa e chiesa” rimasti alla parrocchia.
Tra il 1768 e il 1775 Nicola Antinori vendette i terreni a Francesco Costarelli che li trasmise ai suoi discendenti. Nel 1844 la tenuta di San Pietro fu acquistata dal canonico orvietano Giovanni Napoleoni e in seguito passò, per successione a Luigi Napoleoni e ai suoi figli ed eredi Giovanni e Paolo che l’hanno amministrata fino ai primi decenni del 1900.
Tra gli ultimi decenni dell’Ottocento e i primi del Novecento il borgo era stato dotato, da parte dei comuni di Allerona e Fabro, della strada, della scuola, e del cimitero, servizi fondamentali e indispensabili per la piccola comunità che con l’insieme dei casolari circostanti ha mantenuto una popolazione costante di circa duecento individui. Ma il ruolo principale era svolto dalla parrocchia che ha rappresentato sempre un punto di riferimento per l’aggregazione sociale esercitata attraverso la partecipazione alle cerimonie e ai riti liturgici anche per lo svolgimento delle funzioni proprie delle Confraternite.
Nei primi decenni del Novecento, a cavallo tra le due guerre mondiali, la vita del borgo si svolgeva in stretto rapporto con il paese di Allerona, sede del comune, tanto per le questioni amministrative che economiche.
A San Pietro infatti durante le consultazioni elettorali veniva istituito un seggio elettorale e un rappresentante della frazione era sempre presente fra i candidati nelle liste elettorali comunali.
Tra gli abitanti dei due insediamenti vi era uno scambievole rapporto nei giorni di festa ma più frequenti erano i contatti con le generazioni di alleronesi che a San Pietro sostavano spesso durante le stagioni invernali e primaverili destinate al lavoro del bosco. Il fenomeno dell’urbanesimo che, a partire dagli anni ‘50 del Novecento, ha interessato tutte le campagne sottraendo progressivamente ad esse mano d’opera per l’industria ed i servizi nei grandi centri abitati, non ha risparmiato questa frazione che già nel censimento del 1961 registrava 113 abitanti quasi del tutto spariti alla fine degli anni Settanta. (Notizie storiche tratte da Claudio Urbani, San Pietro Acquaeortus: profilo storico di un’abbazia e dei suoi ordini monastici, Allerona 1978)
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Variante Poggio Spino
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Variante Stagione di Caccia al Cinghiale
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